Buongiorno e buon Lunedì!
Oggi ritorno in carreggiata e voglio farlo con la recensione di un saggio biografico. Generalmente, non è un genere che leggo spesso ma, su gentile prestito, sono riuscita a scoprire questa storia toccante, interessante e, soprattutto, molto attuale!
Titolo Je viens d’Alep: Itinéraire d’un réfugié ordinaire Autore Joude Jassouma, Laurence de Cambronne Editore Allary Anno 2017 Genere Saggio, biografico Formato Cartaceo Lingua Francese Pagine 220
Giugno 2015, Aleppo sprofonda nel caos. Come altre centinaia di migliaia di civili, Joude Jassouma decide di fuggire con sua moglie Aya e la loro bambina Zaine. Da tre anni, in Siria è scoppiata la guerra civile. Gli scontri tra l’armata di Bachar al-Assad e le forze ribelli guidate dai jihadisti di al-Nosra e dallo Stato Islamico diventano quotidiani. Joude, giovane professore di francese delle superiori, rifiuta di scegliere di schierarsi in un conflitto che non gli appartiene. Assieme alla sua famiglia, si nasconde, trasloca quattro volte per fuggire ai bombardamenti. Poi sceglie l’esilio. Dalle rive del Levante alle coste bretoni, passando da Istanbul e dai campi profughi dell’isola di Lèros, questo libro racconta l’esodo di un bambino dei quartieri poveri di Aleppo, innamorato di Flaubert e di Éluard. L’odissea di un eroe anonimo che, a rischio della propria vita, ha attraversato il mar Egeo a bordo di un gommone alla ricerca di un paese d’asilo. Per la prima volta, la più importante crisi migratoria dalla Seconda Guerra Mondiale ci viene raccontata dall’interno, attraverso lo sguardo di un normale rifugiato.
Aleppo, la città multietnica in cui è cresciuto e ha studiato, è distrutta da una guerra civile sanguinosa. Tra le due fazioni opposte, ognuna pronta a perseguire i propri interessi più che il bene della popolazione comune, Joude e la sua normalissima famiglia si ritrovano a vivere nel pericolo costante, tra bombardamenti, assalti e uccisioni sempre più cruenti di giorno in giorno. E di fronte a un tale spettacolo, all’insicurezza per la propria vita e per quelle delle persone care, arriva il momento di prendere una decisione, molto più difficile di quella se credere a un fronte piuttosto che a un altro: restare nel proprio paese, là dove si è sognato di costruire un futuro, oppure partire, abbandonare ogni cosa e ogni persona per andare alla ricerca di un luogo dove non aver paura che una bomba rada al suolo la tua casa, dove nessuno minacci l’incolumità della tua famiglia.
Je viens d’Alep: Itinéraire d’un réfugié ordinaire è un saggio biografico toccante, in cui una persona normalissima descrive ciò che significa ritrovarsi, da un giorno all’altro, in un paese distrutto, attraversando zone di guerra che non erano altro che le vie e i quartieri della città in cui è nata e cresciuta. Senza enfatizzare la drammaticità degli eventi, ma raccontandoli con uno sguardo partecipe e comunque lucido, Joude ripercorre i momenti che lui e la moglie hanno vissuto e che li hanno portati a scegliere di intraprendere un viaggio difficile, lungo ed estenuante verso un paese in pace, dove poter smettere di avere paura.
Ma non è solo la vita da rifugiati a emergere, perché questa esperienza arriva alla fine. Per tutta la prima parte del libro, infatti, si ripercorre l’infanzia e la giovinezza di Joude, le sue speranze, gli studi, le fatiche fatte per emergere da un quartiere povero e degradato, in cui le aspettative di successo sono esigue (se non inesistenti), conoscendo una voce narrante del tutto identica a qualsiasi altra nata e cresciuta in occidente, nelle zone delle grandi città magari più marginali e guardate con sospetto. Joude il rifugiato, il richiedente asilo, non è distante da noi e dalle nostre esperienze, ma è ed emerge dalle parole come un ragazzo e un uomo qualunque, come potrebbe esserlo un nostro vicino di casa. Come lo siamo noi.
Prima di leggere questa biografia, devo ammettere che conoscevo poco le vicende della guerra in Siria. A grandi linee sapevo chi era coinvolto e perché, da cosa i civili stessero fuggendo, ma ne avevo un’idea molto vaga, consapevole solo in parte delle conseguenze che gli scontri hanno avuto e continuano ad avere per i siriani. Con la storia di questo professore, invece, si “tocca” da vicino l’esperienza traumatizzante della guerra civile, del vedere il proprio paese e la propria città fatti a pezzi, insieme alla normalità delle proprie vite. Perché è questo che più mi ha colpita, il realizzare che l’etichetta di “rifugiato”, di “profugo” e di “immigrato” non è che la parte marginale, l’ultima da considerare, della persona che ci si trova davanti in queste pagine. Essa è l’ultima opzione rimasta a persone che, in modo cruento, si sono viste strappar via tutto il resto e che sono state costrette ad andarsene se volevano restare in vita, se volevano tenere al sicuro chi amano.
È una lettura intensa, istruttiva anche, perché spesso, e ingenuamente, non ci si prende la briga di pensare che, prima di intraprendere il loro viaggio, Joude e chi si è trovato nella sua stessa situazione avevano una vita loro, che non sono comparsi dal nulla con lo scopo di richiedere asilo e aiuto, ma che si sono ritrovati costretti a farlo, volenti o nolenti, perché non esistevano alternative.
Io non mi sbilancio mai, né commento, gli eventi che accadono nel nostro tempo, perché non fa parte del blog, ma se conoscete il francese date una possibilità a questo libro. Negli ultimi mesi si sta stigmatizzando una condizione, delle persone, per scopi diversi, dimenticando, o ignorando, un aspetto fondamentale: siamo esseri umani, noi e loro, tutti accumunati da desideri e speranze, da vite vissute e da affetti profondi, come da paure e da tentativi di condurre un’esistenza priva di pericoli.
Tutti abbiamo un passato, un mondo che ci siamo lasciati alle spalle magari a malincuore, e nessuno dovrebbe essere giudicato per la speranza di una vita migliore.
A domani Federica 💋
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