Buongiorno a tutti!
Per questo lunedì ho pensato di iniziare la settimana in modo diverso, proponendovi il racconto per la Storytelling Chronicles, la rubrica di scrittura creativa ideata da Lara di La Nicchia Letteraria e con grafica di Tania di My Crea Bookish Kingdom – ormai la conoscete meglio di me!
Ebbene il tema di questo mese era doppio: dovevo seguire le castagne e le foglie! Ne è uscita una storia curiosa, ispirata a un luogo vicino a dove vivo, chiamato la Madonna della Castagna, un santuario sulle colline di Bergamo circondato da un bosco di castagni e ippocastani. Da noi, anche a scuola, è quasi una tradizione andarci in questo periodo per raccogliere le castagne da mangiare, ma ci si trovano anche le matte – da noi sono le genge, quelle lucide e da usare per allontanare i malanni – e sono queste che mi hanno ispirata.
Ecco, ora che il preambolo è finito vi lascio al racconto. Buona lettura!
Castagne matte
Guardo i prati tinti d’ambra, la collina travestita nei colori dell’autunno, e mi sembra di soffocare. Ho passato anni seduta su questa panchina, lo sguardo perso sul paesaggio o in un libro mentre mio padre dipingeva, tuttavia è la prima volta che lo spettacolo davanti agli occhi mi toglie il fiato. Non in senso positivo. Dodici mesi fa l’ho accompagnato qui per l’ultima volta; perché anche se la malattia gli aveva da tempo tolto la possibilità di portare avanti la sua passione mio papà adorava stare qui, gli donava pace osservare questo scorcio di natura incontaminata nel bel mezzo della città. Diceva che gli ricordava i primi anni di matrimonio, sempre diversi, imprevedibili e meravigliosi, e gli faceva sentire la mamma più vicina, lei che adorava stare all’aria aperta. Alzo gli occhi al cielo per non far vincere le lacrime, perché papà mi sgriderebbe se mi vedesse. «Mi hai pianto abbastanza, tesoro. Sii triste, se devi, ma hai ricordi felici in abbondanza per scacciare le lacrime con un sorriso.» Ed è proprio ciò che faccio al pensiero che mi direbbe una cosa simile, perché era convinto che il dolore dovesse avere una data di scadenza davvero breve, mentre la felicità e i ricordi belli si sarebbero autoconservati per l’eternità. Papà era fatto così e ricordarlo, sorridere, allenta la stretta al petto che mi fa sentire in balia di un mostro crudele e mi chiude la gola. Gli ippocastani e i castagni del viale alle mie spalle mi offrono un leggero riparo dal sole tenue della giornata e offrono un terreno fertile per i bambini alla ricerca dei frutti da far cuocere o da regalare, o delle foglie per decorare quaderni e diari, da portare a scuola per progetti che li fanno ridere e correre un po’ ovunque. La loro presenza era un altro dei motivi per cui papà amava questo posto. Lo facevano ridere, con le loro domande sulla pittura, e si sentiva giovane anche se… «Scusi, lei è Rachele?» La voce che si è intromessa nei miei ricordi appartiene a un uomo. Avrà la mia età, trent’anni o giù di lì, alto e un viso particolare, insolito nei tratti marcati ma non per questo meno bello, gli occhi castani che vibrano di sfumature color cioccolato e vengono enfatizzati dai corti capelli corvini. Mi studia e mi rendo conto adesso che attende una risposta. «Sono io, sì.» Mi riscuoto e mi alzo, perché la sua altezza mi mette in soggezione. «Mi perdoni, ma ci conosciamo?» Lui sorride, un gesto che è un miscuglio tra imbarazzo e fascino naturale per nulla ostentato, le mani infilate nelle tasche del gubbino di pelle mentre scuote appena la testa. «No» aggiunge poco dopo, «ma l’ho riconosciuta subito. Le descrizioni di Antonio erano sempre accurate.» Antonio? «Mio padre?» Sono stupita, perché non ne sapevo nulla. «Le ha parlato di me?» «A volte. Era davvero orgoglioso della figlia giornalista.» Il castano dei suoi occhi vira al nero in un istante. «Mi dispiace per la sua perdita. È stato l’anno scorso, vero?» «Sarà un anno domani, sì.» Sento la voce contrarsi, la gola che si chiude per il dolore, ma mi sforzo per non lasciare che vinca. «Grazie. A volte mi sembra sia successo ieri, invece è già passato tutto questo tempo.» «Lo capisco. Ho perso mio nonno anni fa, tuttavia sento ancora la sua mancanza.» Restiamo a guardarci in silenzio per alcuni secondi. Mi pare strano trovarmi qui con uno sconosciuto a parlare di mio padre e della mia perdita, senza sentirmi a disagio né trovarlo invadente. È… normale, per quanto possa esserlo con uno di cui non conosco nemmeno il nome. «Non mi ha detto come si chiama.» Lo vedo strabuzzare gli occhi nel rendersene conto, un’espressione buffa che mi fa aggiungere: «Possiamo darci del tu?». «Ma certo. E comunque, sono Matteo.» Allungo una mano nella sua direzione e lui, dopo aver esitato soltanto per un secondo, ricambia il gesto con trasporto. Ha una presa salda e dita calde, forse perché le ha tenute nelle tasche per tutto questo tempo; il contatto con la pelle ruvida dice molto della sua persona, così come i calli che la contraddistinguono. È la mano di un uomo che lavora e che lo fa senza mezze misure, in modo diretto e determinato. Una mano che mio padre avrebbe adorato ritrarre. «Qual è il verdetto?» me lo chiede mezzo divertito, i suoi occhi che si abbassano verso le nostre mani ancora unite quando corrugo la fronte. «Antonio diceva sempre che una stretta di mano…» «…vale più di mille parole» concludo insieme a lui, felice che si ricordi il detto preferito di papà. «È positivo, a ogni modo.» «Ne sono contento.» Le sue labbra si aprono a mostrare i denti, perfetti e bianchi, e io lo osservo incredula per la trasformazione straordinaria del suo viso. «La prima volta che l’ho incontrato mi ha detto che dovevo lavorarci sopra se volevo fare una buona impressione.» «Beh, ci sei riuscito.» Ritiro la mano e un po’ me ne dispiaccio. «Quando lo hai conosciuto?» «Una vita fa» scherza. «È stato l’incontro giusto al momento giusto.» «Come mai?»
«Avevo tredici anni, ero arrabbiato perché mio padre mi aveva portato via la chitarra e mi aveva messo in punizione. Per ripicca sono scappato di casa, finendo seduto proprio sulla panchina dove te ne stavi seduta tu.» Scuote la testa, lo sguardo che spazia verso il panorama e poi torna su di me. «Stavo qui a borbottare quanto detestassi il mio vecchio, quando è arrivato Antonio. Mi ha guardato, ha scosso la testa e poi ha montato il cavalletto, iniziando a dipingere. Non so quando, ma a un tratto mi sono avvicinato e lui mi ha chiesto di prendergli un tubetto dalla borsa. È stato categorico, quasi se lo aspettasse.» «Fammi indovinare: lo hai mandato a quel paese.» «Peggio. Gli ho detto che la pittura era da stupidi e da femminucce. Volevo farlo arrabbiare tanto quanto lo ero, ma non ha funzionato.» «Certo che no.» Papà si infuriava raramente e ci voleva ben altro per farlo innervosire. «Ti ha detto qualcosa?» «Che se ero bravo in un’attività più costruttiva tanto quanto lo ero a essere arrabbiato avrei avuto successo. Poi mi ha mostrato la mano, chiedendomi di stringerla.» Nasconde le dita tra i capelli, l’espressione lontana come se stesse rivivendo quel ricordo. «“Una stretta rivela chi sei” ha spiegato, “e vale più di mille parole. Devi migliorarla se vuoi fare una buona impressione.”» «Tipico di papà» mormoro davanti alla profondità del suo trasporto, quasi per paura di strapparlo a quel momento. «La parte più strana arriva adesso» mi informa, il braccio che torna al proprio posto e le mani in entrambe le tasche. «Era metà ottobre e faceva un po’ più freddo di oggi, perciò quando mi ha sentito starnutire si è guardato attorno, ha raccolto qualcosa da terra e poi ci ha disegnato sopra. Sai cos’era?» «Una castagna matta.» Quelle che non si possono mangiare perché velenose, le stesse che infilava anche a me in ogni tasca possibile. «Si crede prevengano il raffreddore.» «Infatti.» Estrae la mano e quando apre le dita, sul palmo tiene proprio una castagna, il lato curvo occupato dal disegno di una piccolissima foglia di ippocastano. Sotto ci sono anche due iniziali: A. L., Antonio Lotti. Papà. «Da quando me l’ha regalata non l’ho più preso.» «Davvero?» Questa mi suona strana, perché lo sanno tutti che non funzionano davvero. «Lo giuro» conferma serio, il suo sorriso a metà che lo rende sincero. «Antonio ha riso quando gliel’ho detto.» «Quando vi siete visti l’ultima volta?» «Quasi sei anni fa. All’epoca iniziavano a tremargli solo un po’ le mani.» I suoi occhi si spostano sul paesaggio prima di proseguire. «Sono stato all’estero fino a un mese fa. Mi è spiaciuto non essere tornato per il funerale.» Annuisco a malapena. «È stato meglio così forse. Papà non era più lo stesso alla fine.» Vorrebbe dire qualcosa, ma due bambini con gli stessi occhi e capelli castani lo raggiungono di corsa e lo travolgono di domande, oltre che con dei tentativi saltargli addosso. Vederli insieme mi ricorda di quando ero piccola, e con mia sorella rincorrevamo papà, o giocavamo a nascondino con lui. Sono davvero teneri da osservare. «I tuoi bambini ti adorano» dico con un sorriso quando li osserva allontanarsi di nuovo, ma solo dopo aver promesso loro di raggiungerli presto. «I miei… cosa?» Resta di stucco e la testa scatta nella mia direzione per fissarmi negli occhi. «Quei due? No, no, non sono miei. Sono solo lo zio. C’è mio fratello con la moglie più avanti.» «Oh, scusa. L’ho dato per scontato perché ti somigliano.» «Davvero? Non l’ho mai notato…» Si guarda attorno, forse in imbarazzo perché non sa come congedarsi senza sembrare scortese. Meglio se lo levo dall’impiccio. «Grazie per la chiacchierata. Mi ha fatto davvero piacere.» «Anche a me.» Gioca con i lati del giubbotto, indeciso, e vedere il suo imbarazzo mi diverte, perché è una cosa davvero tenera da parte sua. «Senti…» «Se devi andare, nessun problema. Tranquillo.» «Ah, ok.» Le sue spalle si abbassano. «Allora… Ciao, Rachele.» «Ciao, Matteo.» Fa un passo verso i suoi nipoti e sto già per sedermi ancora sulla panchina quando ci ripensa e torna indietro. Con la mano si scompiglia i capelli, mentre l’altra è lungo il fianco, le dita che fanno roteare la castagna matta come una trottola. «Senti…» inizia, per poi fermarsi e pensarci su. «Senti, Rachele, so che sono un estraneo ma… Ti andrebbe di unirti a noi. Raccogliamo le castagne e sulle matte disegniamo una foglia, niente di che. Ma mi farebbe piacere se ci fossi anche tu.» È… non lo so. Vorrei rifiutare, ma appena guardo la panchina su cui sono rimasta seduto per ore, mi sembra di risentire la voce di papà, la sua risata e il fruscio del pennello sulla tela. E di vederlo annuire, come se mi dicesse di andare, che lui starà bene. E mi ritorna in mente perché ha sempre disegnato una foglia sulla castagne matte. «Le foglie riparano dalla pioggia e dal sole troppo forte» mi aveva detto una volta. «Sono lo scudo che ci rende più forti e sicuri, come la famiglia. A volte danno fastidio, ma alla fine ci permettono di diventare chi siamo davvero.» Guardo Matteo, che il giorno in cui ha incontrato mio papà aveva litigato con il suo, che aveva starnutito per essere forse uscito di casa troppo in fretta e senza coprirsi bene. E sorrido, perché anche se il mio papà non c’è più e fa malissimo non averlo qui con me, di lui mi resta tutto ciò che abbiamo fatto insieme. È la mia castagna matta con la foglia, il mio scudo, e adesso devo lasciare che faccia il suo miracoloso effetto. «Vi aiuto molto volentieri.»
Fine!
Fatemi sapere se vi è piaciuto e se conoscevate già le castagne genge 😊
Federica 💋
Comments