Buongiorno!
Oggi torno con un nuovo racconto per la Storytelling Chronicles, la rubrica di scrittura creativa ideata da Lara (La Nicchia Letteraria) e che questo mese aveva un tema complesso, perché doveva rispettare queste linee/argomenti:
1. Citare il colore rosa.
2. Inserire una moto o una macchina di quelle fighe e veloci.
3. Deve esserci un elemento fantasy/sovrannaturale.
4. Inserire un animale domestico.
5. Aggiungere un riferimento alla Corea del Sud.
6. Un personaggio deve essere minorenne.
7. Qualcuno deve avere gli occhi azzurri.
8. Uno dei giorni nell'arco dei quali si dipana la storia, deve prevedere la pioggia.
9. In qualche modo (che sia detto esplicitamente da qualcuno, che sia specificato in una locandina vista per strada, che sia indicato da un libro sul comodino o in qualsivoglia modalità a vostra scelta) deve esserci un riferimento al passato, inteso come periodo storico o come background di uno dei personaggi.
10. Inserire una foresta o un bosco.
11. Deve essere citato il dolce preferito del/della protagonista.
12. Bisogna scrivere un massimo di 5000 parole.
Li ho rispettati tutti, vedrete (e sono 4896 parole, per non farvele contare).
«Tenebre, ascendete. Per mio volere, il vostro posto reclamate e del mondo terreno il vostro reame fate. Un solo comando vi impongo di eseguire: tutta questa pioggia fate sparire.»
Sollevo la testa verso l'arco formato dagli alberi, il ticchettio delle gocce a rimbalzarmi sulla testa e a ridere di me ancora e ancora e ancora. Niente, neppure richiamare la magia oscura pone fine al temporale che imperversa sulla città da tre settimane.
Il maleficio scagliato per caso, tutta colpa di una fattucchiera sbadata che si è dimenticata di chiudere le imposte durante il raffreddore per evitare che la sua magia fuori controllo lasciasse la casa, non molla la presa neppure al mio ennesimo tentativo di dissiparlo.
«Dannato temporale, prima o poi ti deciderai a smettere» inveisco contro il cielo e il suo continuo riversare a terra fiumi d'acqua ormai arrivata ad annacquare persino i pensieri di chiunque. «Ti trasformerò in un'estate perenne, aspetta e vedrai!»
Marcio fuori dal bosco a passo di carica, la borsa in spalla rimasta asciutta per un qualche miracolo. O forse la bancarella dove l'ho comprata diceva il vero quando affermava di vendere solo “Oggetti magici immuni a incantesimi, malefici, malefatte e al più comune degrado da agenti atmosferici”. Quale che sia la verità, la mia tracolla è l'unica cosa asciutta che si trascina verso il sentiero.
La strada per rientrare a casa si snoda per diversi metri all'interno di una fitta rete di alberi, che gli abitanti della cittadina vicina ancora identificano come il Bosco delle Streghe, anche se di streghe non ne vede da decenni. Solo una ci passa il suo tempo, io. Non con grande successo, come ha appena dimostrato il mio tentativo fallito. L'ennesimo, ma, ehi, chi tiene il conto?
(Io, infatti è il trentesimo. Però voi non ditelo a nessuno.)
L'atmosfera antica che si respira in mezzo alla natura si scontra in modo brutale con la realtà quando metto piede fuori dalla distesa di corteccia e foglie cariche d'acqua, la cittadina moderna ad attendermi all’orizzonte come la ghigliottina con Robespierre. Fortuna che non devo ancora riferire dei miei progressi al consiglio cittadino. Ho ancora due settimane per tergiversare e cercare una soluzione plausibile che non comporti il sollevare le spalle e mandare tutti a quel paese con un: «Io ci ho provato. Non ci resta che farci crescere le pinne e le branchie».
Rido tra me, consapevole della faccia inacidita che farebbe il sindaco al sentirmelo dire. Quell'uomo ha l'elasticità mentale di una testa dell'isola di Pasqua. Me le ricorda anche con un'inquietante somiglianza fisica, ora che ci penso.
(Quella sua fronte lunga chilometri potrebbe ospitare una pista di biglie, ve lo posso garantire.)
A qualche metro dal cartello “Benvenuti a Westview”…
(So cosa state pensando, ma no, non mi chiamo Wanda e questa non è la Marvel, ma il New England.)
… prendo la strada sterrata e cosparsa di fiumiciattoli alla mia sinistra, una passeggiata di quasi dieci minuti per giungere al cottage basso e coperto di edera rampicante che chiamo casa. È un villino ereditato dalla famiglia di mia madre, trasmesso di generazione in generazione a chi ha la fortuna di ricevere i poteri posseduti sin dai tempi della nostra matriarca alla fine del tredicesimo secolo.
(Una megera senza pari che, quando la Santa Inquisizione ha cercato di bruciarla sul rogo secoli dopo, ha visto le fiamme aprirsi pur di non toccarla. Non vi dico il fuggifuggi generale di fronte a un tale spettacolo.)
In verità, casa mia è un insieme di assi scricchiolanti, con un tetto che perde, serramenti del tutto inutili e un sistema idraulico che ha visto giorni migliori e regala acqua fredda un giorno sì e uno no, per la gioia delle mie docce mattutine. E cercare di farla avvicinare ai tempi moderni con un incantesimo o un rito di qualche tipo ha dato come frutti il totale rifiuto da parte della casa di accettare i lavori. Se provo anche solo a cambiare colore alle pareti, la mattina dopo tornano dello stesso pervinca sbiadito che risale ai tempi della bisnonna.
La modernità non sta di casa da me, tuttavia balza all'occhio sotto forma di una moto di quelle costose parcheggiata sotto la tettoia con la mia auto.
Abbiamo ospiti, quindi.
Con un occhio al veicolo nero, come se potesse muoversi o aggredirmi se solo sbattessi le palpebre, raggiungo la porta d'ingresso e prima di entrare sfioro con le dita i diversi campanelli appesi contro la parete. Una sensazione di pace e calore mi solletica i polpastrelli per poi inerpicarsi lungo la mano e il braccio, fino a risalire alle spalle e ad avvolgermi il collo come una sciarpa calda. Sì, casetta, sono felice anche io di essere tornata.
Un benvenuto che si fa stizzito appena gocciolo la mia presenza nello stretto ingresso.
Assi che scricchiolano, finestre che tintinnano e sibili di rimprovero perché non le piace essere bagnata.
Il visitatore, però, lo hai fatto entrare.
Vedere un paio di stivaletti neri da biker sembra essere la risposta alla mia lamentela. Come a dire: “Lui se li è tolti”.
Sto ancora maledendo con lo sguardo il paio di scarpe, quando dall’arco della cucina spunta mia sorella Astrid, con il grembiule sporco di melma verde e Morgana accoccolata sulla spalla, il muso della gatta affondato nell'incavo del collo e sotto i lunghi capelli ramati.
«Rory, sei tornata finalmente! Hai una visita.»
«Davvero? Non lo avevo capito.» Il sarcasmo fa arricciare il naso alla mia sorellina. «Dov’è?»
«Si è accomodato da solo nello studio, circa cinque minuti fa.»
Accidenti, se solo fossi tornata prima lo avrei tenuto fuori casa.
«Gli hai offerto qualcosa da bere o da mangiare?»
Scuote la testa, Morgana infastidita dal gesto tanto da emettere un piccolo soffio irritato. «Ha detto di non scomodarsi e che, una volta arrivata tu, non sarebbe rimasto a lungo.»
«Sia lodata la Madre.» Astrid piega di nuovo il naso da una parte all’altra. «Che c'è? Ti ha detto qualcos’altro?»
«No, ma mi ha sorriso e non lo fa mai.»
Uh, sì, ha ragione, è preoccupante che si sia lasciato andare a un cenno del genere con Astrid. Nei due anni da che lo conosciamo, la mia seccante sorellina quindicenne è riuscita a rendergli la vita un piccolo inferno. Se si è spinto a tanto con lei non deve esserci nulla di buono ad attendermi.
«Be’, finché non saprò che succede, fingi che ti abbia ignorato.» Le passo la tracolla e la giacca completamente fradicia. «L’incantesimo non ha funzionato.»
«Ma dai? Credevo fossi uscita per far piovere un po' di più.»
Sarcasmo, la piaga della nostra famiglia.
«Tu vedi di cercare qualcos'altro nei libri della nonna. Dobbiamo trovare una soluzione, altrimenti non ci resterà che dire a tutti di farsi crescere le branchie.»
«Spero che tu non abbia intenzione di dirglielo.» Lancia un'occhiata veloce verso il corridoio che porta sul retro nella casa, all'uscita per il giardino sul retro e al mio studio. «Se lo sapesse, lo direbbe di certo ai rappresentanti del Comune e della corte cittadina.»
«Se lo sapesse, sarebbe vincolato al silenzio» le ricordo e ottengo in risposta un brusco cenno affermativo. «E non è che possa avere grandi segreti con lui. Neanche se ci provassi.»
«Allora vedi di scoprire perché mi ha guardata in quel modo.» Stringe al petto la mia borsa e la giacca, incurante che quest'ultima finisca per infradiciarle il grembiule e la maglietta. «Mi ha messo i brividi.»
«Vedrò che posso fare.» Affondo le dita nei capelli per pettinare all'indietro le ciocche scompigliate e gocciolanti. La tinta rosa pastello risulta più scura del normale contro la pelle, un contrasto evidente quando li sistemo su una spalla e strizzo l'acqua in eccesso. «Come sto?»
«Una favola! L'outfit perfetto per incontrare il tuo principe azzurro.»
Abbozzo un verso disgustato all’idea. Il nostro ospite è tutt'altro che un principe. Soprattutto non è mio. Per la Madre, sarebbe una catastrofe se lo fosse.
«Vado. Augurami buona fortuna.»
Ma Astrid non si limita a quello. Mi scocca un’occhiata carica di divertimento prima di sussurrare: «Stendilo, tigre».
A volte mi chiedo come faccio a sopportare mia sorella ogni singolo giorno, un anno dopo l'altro dopo l'altro dopo l'altro.
(Spoiler: la amo più della mia vita e sono quasi morta per lei un paio di anni fa. Ciò nonostante resta comunque una piccola e fastidiosa quindicenne.)
Con Astrid di nuovo sparita in cucina, mi aggiusto i vestiti e percorro in fretta il corridoio verso lo studio. La porta di legno massiccio è accostata, le rune di protezione incise sulla superficie sono silenziose in modo snervante. Traditrici, un’accusa sussurrata tra me e me che sembra scatenare l’eco di una risata lungo i cardini quando girano per aprirla.
Il mio studio non è grande, sufficiente per una scrivania di legno antico e una piccola libreria a tutta parete alle sue spalle. A renderlo confortevole è la vista sul giardino e sul fiume in lontananza che si gode dalle finestre alte fino al soffitto, ma oggi lo definirei quasi angusto, lo spazio occupato per intero dalla figura longilinea e flessuosa accampata al suo interno.
È alto ben più della media, di certo due spanne più di me, e sembra uscito da uno dei racconti della nonna sui guerrieri vichinghi in vita tanti secoli fa, con i suoi capelli biondi di una tonalità chiara abbastanza da sembrare bianchi sotto la luce della lampada, e con una barba appena più scura a segnargli il profilo del mento. Ricorda una versione moderna di quei guerrieri, la pelle del giubbotto nero macchiata di pioggia e i jeans strappati a fasciargli le gambe divaricate.
Come se fosse in attesa dello scontro e non aspettasse altro.
Un guerriero moderno.
Con ai piedi un paio di calzini rosa.
Riderei alla vista, se solo non mettessi a fuoco l’oggetto tra le sue dita affusolate.
Per la Madre.
«Fossi in te lo poserei. Con delicatezza.»
Il mio avvertimento lo blocca sul posto, la mano stretta attorno alla bambolina di pezza. Il busto ruota su sé stesso seguito dai piedi e dalla testa, un movimento lento e controllato che mi rende l’oggetto della sua totale attenzione.
Occhi azzurri quanto il cielo d’inverno si soffermano nei miei carichi di divertimento e dubbio.
«Perché? Sembra un’innocua bambola di pezza.»
Oh, non ne ha idea. «Era l’intenzione del suo creatore. È un dokkaebi, una sorta di goblin co…»
«Coreano» termina al posto mio, gli occhi abbassati sulla bambolina. «Benigno o maligno?»
«L’ultima volta che si è fatto vedere, ha annodato un nido di api tra capelli di Astrid per poi ridersela a crepapelle quando quelle si sono agitate.» Mi stringo nelle spalle. «Ma se tu vuoi tentare la sorte e svegliarlo, libero di farlo. Fuori da casa mia.»
«Per stavolta passo. Non ti chiederò nemmeno cosa ci fa un dokkaebi in casa tua.»
Appoggia il giocattolo con delicatezza sulla scrivania, nello stesso punto da cui lo ha preso. Gli lancia un’occhiata veloce, un tentativo di accertarsi che se ne stia buono, poi i suoi occhi limpidi tornano sulla sottoscritta.
«Rowena.»
«Conrad.»
Un saluto a cui segue una stasi pesante ed elettrica. Mi osserva dalla testa fradicia ai piedi altrettanto bagnati, un’esplorazione curata che mi fa correre un brivido lungo la schiena. Disgusto, non potrebbe essere altro quando si tratta di lui.
«Allora» inizio e obbligo il mio corpo a riscuotersi e avanzare per riconquistare il mio studio, «cosa fa il più abile e famoso cacciatore di streghe del New England nella mia dimora?»
«Non posso essere qui per una banale visita di cortesia?»
Le sue labbra piene curvano verso l'alto in un accenno di sorriso. Astrid aveva ragione. È incredibilmente sospetto.
«Sappiamo entrambi che, il giorno in cui ci sarà della reale cortesia tra noi, dovremmo iniziare a guardarci le spalle dal resto del mondo, non soltanto l'uno dall’altra.»
Perché in un mondo come il nostro, in cui l'operato delle streghe è regolamentato secondo leggi statali per garantire a tutte noi di sopravvivere e ai comuni mortali di vivere sereni nella convinzione di essere protetti qualora decidessimo di colpirli con fatture e incantesimi, non viene visto di buon occhio l’apparente tregua che sembriamo aver stipulato noi due. È un affare sospetto, specie perché riguarda il migliore tra cacciatori e l'erede della matriarca più antica e potente mai conosciuta.
Ma è una tregua che abbiamo stipulato contro la nostra volontà. Una il cui prezzo e le conseguenze crescono di giorno in giorno.
«Quindi te lo richiedo» torno alla carica nel sedermi alla scrivania e nel fargli cenno con la mano di prendere posto sull'unica poltrona dall'altro lato. «Perché sei qui oggi?»
«Sondo il terreno» ammette alla fine, il corpo massiccio adagiato contro il velluto verde come se fosse a proprio agio. «Il consiglio di Westview mi ha incaricato di controllare a che punto sono i tentativi per liberarci del perenne temporale.»
«Perciò sei qui per ficcare il naso nei miei affari.»
«Se proprio vuoi metterla così…» Serra le braccia al petto, le stesse braccia tese e a stento contenute nella giacca di pelle. «Hanno ritenuto fossi l'ambasciatore migliore per chiederti aggiornamenti, alla luce delle nostre rispettive cariche e del particolare accordo che credono ci abbia portati dove siamo ora.»
«Avevano troppa paura di mandare un segretario? Non lo avrei certo cacciato via in malo modo.»
«A quanto so, l'ultimo che ha messo piede nella proprietà si è ritrovato con coda e orecchie da maiale per una settimana.»
Sbuffo, gli occhi levati al soffitto. «Ha fatto una battuta sessista e la casa non ha gradito. Le rune di protezione non hanno poi un gran potere, ma su certi soggetti funzionano a meraviglia.»
Lui aggrotta la fronte, le palpebre ridotte a fessure dietro le quali gli occhi azzurri mi scrutano attenti.
«Questo non lo ha detto.»
«Altrimenti come avrebbe potuto farmi passare per la megera di turno?» Liquido l'intera situazione con un cenno della mano. «A ogni modo, come puoi vedere, i miei tentativi non hanno ancora portato a una soluzione efficace. Ho intenzione di sfruttare appieno tutte e due le settimane che ancora mancano alla scadenza del contratto.»
«Uno che non avresti dovuto stipulare» commenta, la testa voltata per un secondo verso le ampie finestre. «Siamo nel new England, per l'amor di Dio. Che piova per tre settimane non mi sembra una tragedia.»
Riderei se non si trattasse di lui, e della tensione che mi scatena dentro.
«Dillo al sindaco e alla sua pretesa di avere tutte giornate di sole durante il prossimo festival.» Uno che potrebbe anche rimandare o non riproporre mai più, considerato che si tratta dei festeggiamenti per il quarantesimo anno dalla cacciata dell'ultima congrega di streghe da Westview. «Ho firmato solo perché nel contratto ha accettato di inserire come pagamento un rifornimento annuale di macarons al frutto della passione.»
«Ancora non accettate di farvi pagare come tutti i comuni mortali?» Scuote la testa e, accidenti a lui, sorride di nuovo. «Cos’avete contro il denaro, voi streghe?»
«Lo tolleriamo a fatica, sai, visto che era ciò che chiedevano gli uomini in cambio di una di noi da mandare al rogo. E, contrariamente a quanto si crede, l'unica che non è mai bruciata è soltanto la prima della mia stirpe. Tutte noi altre non siamo ignifughe.»
Il cacciatore annuisce. «Lo so bene, credimi. Viaggiare per il mondo ti mette davanti a tutte le sue sfaccettature, comprese quelle più crudeli.»
Già. Il rogo non era più la condanna a morte per stregoneria da diversi secoli, ma in alcune parti del mondo, quando una di noi viene ritenuta colpevole, bruciarla sembra essere l'unica punizione capace di soddisfare i suoi carnefici.
«Perché proprio i macarons al frutto della passione?»
Non vorrei proprio rispondere, tuttavia la verità mi scivola lungo le labbra fino a diventare solida e ad acquisire dei suoni tutti i suoi.
«Sono il mio dolce preferito.»
Vorrei rimangiare ogni singola parola, tuttavia riesco a fermarmi prima di aggiungere qualunque altra cosa, la bocca cucita davanti alla sua evidente soddisfazione.
È snervante. Il non potergli mentire per nessuna ragione comincia a essere un inconveniente non poi così secondario, non quando Conrad sembra essere sempre più presente nella vita della cittadina. Ma è un inconveniente che possiamo sfruttare entrambi.
«Cosa vuole sapere di preciso il sindaco? E basta rifilarmi la scusa della scadenza.»
Tentenna per un secondo, la mascella stretta quasi cercasse di opporsi all’inevitabile. Povero e sciocco cacciatore, ormai dovrebbe aver imparato che nessuno di noi due può sfuggire a questa condanna.
«Mi ha mandato a scoprire se siete state voi. Se tu o Astrid lo avete fatto di proposito.»
La confessione aleggia tra noi, pensante e oscura quanto il sospetto che gli attraversa lo sguardo. Possiamo fingere di essere civili quanto vogliamo, ma nessuno di noi due può davvero porre fine alla diatriba che da secoli oppone le streghe agli uomini che danno loro la caccia. Noi due siamo soltanto una nuova pagina all'interno di una storia antica come il mondo.
«Tu cosa pensi?»
Domanda pesante e pericolosa, ma il nocciolo della questione è tutto lì. Se il migliore tra i cacciatori dovesse anche solo avere il sospetto che la ragione del temporale viva in questa casa, allora ogni pretesa di civile convivenza con la cittadina arriverà alla sua naturale fine.
Per questo hanno mandato lui, così da porre fine al problema senza doversi ripresentare in un'altra occasione.
Peccato che la pioggia non cesserà, neanche se dovesse eliminare entrambe.
Lo sguardo acuto di Conrad mi scivola addosso e si aggancia al mio viso per più tempo di quanto sia necessario. Cerca una verità che non mi ha obbligata a fornirgli. Avrebbe potuto chiedermelo direttamente, rendermi impossibile il nascondergli ciò che so, tuttavia si accontenta di osservarmi a lungo. È un esame a cui non mi sottraggo, consapevole della presenza di un piccolo barlume di paura in fondo alla mia mente.
È lì, in attesa di divampare in un incendio fuori controllo se dovesse dubitare di me o di acquietarsi fino al prossimo problema imputato alle streghe che vivono fuori città.
«So che non è stata Astrid» afferma alla fine, una verità innegabile di cui siamo i soli a conoscere le vere ragioni. «Il sigillo è ancora al suo posto?»
«Sì.» Sempre, da ben due anni e di sicuro vi resterà per altri tre. Quando compirà diciotto anni, tuttavia… «Per adesso non dobbiamo preoccuparcene.»
Dobbiamo. Un plurale forgiato con il sangue nella notte più brutta di tutte e tre le nostre vite.
«Bene. Tua sorella e io non andiamo d'accordo, ma non è una ragione valida per convincermi ad affrontare quel particolare problema tanto presto.»
«Allora perché le hai sorriso quando sei entrato?»
Le labbra di Conrad si piegano all'insù, lo stesso gesto che ha insospettito Astrid adesso mi fa correre un nuovo brivido di avvertimento lungo la nuca. Il freddo e il disgusto, devono essere questi due a scatenarlo, non il cacciatore seduto davanti a me.
«Perché nonostante abbia quasi distrutto mezza Westview due anni fa, e sia una dannata spina nel fianco, Astrid non è nulla di più di una ragazzina come ogni altra sua coetanea.» Solleva le spalle con noncuranza. «Vederla oggi, con il gatto acciambellato attorno al collo, me lo ha ricordato.»
Un accenno di calore e solidarietà mi scalda il petto, lo sterno attraversato da una punta arroventata di consapevolezza un attimo dopo.
So che non è stata Astrid.
Ma di me cosa pensa?
«E io?» indago, la gola stretta a sufficienza da portarmi a schiarirla un paio di volte.
«Tu?» Conrad passa in rassegna il mio viso, un gesto lento e calibrato. «Tu cosa, Rowena?»
«Potrei essere stata io, secondo te?»
Una domanda diretta, una a cui non può non rispondere. Una di cui temo il responso più di molti altri dubbi abbia mai nutrito da quando lo conosco. Da quando le nostre esistenze sono state intrecciate per volere della Madre.
Conrad incolla lo sguardo al mio e sento lo spazio restringersi fino a includere solo noi due.
Trattengo il respiro in attesa di ascoltare la sua replica, di avvertire l’attizzatoio affondarmi nel petto un po’ di più oppure di andarsene e lasciarmi solo il ricordo del suo calore accecante.
«No.» Una sola sillaba che gli rotola sulle labbra, spinta dalla punta della lingua a precipitare tra noi e a prendere corpo come un uragano in miniatura. «Non credo sia stata tu, non in modo intenzionale almeno.»
«È così, infatti.»
«Sì?» Solleva un sopracciglio e allunga le labbra in una linea sottile. «Non capisco se mi stai dicendo che non sei stata tu o se non è accaduto di proposito.»
Non lo chiede e stavolta mi innervosisce il suo atteggiamento. «Non vuoi sapere la risposta?»
«Certo che sì» replica senza esitare. «Ma tu vuoi dirmela, Rowena?»
«No» mi sfugge subito. «Preferirei di no.»
«Lo immaginavo.» Le labbra si piegano in un cenno complice, la malizia ad accentuarne la curva sensuale. «Dovresti indossare degli abiti asciutti. Rischi di ammalarti così. Di nuovo.»
«Non vedo come la mia salute ti riguardi, cacciatore. Sono sempre stata bene nelle ultime due settimane.»
«Appunto.» Sogghigna e libera le braccia dalla stretta possente in cui le ha trattenute fino a ora. «Il temporale è iniziato quasi un mese fa.»
(Dannazione, lo so, lo so. Mi sono tradita da sola. Non ridete.)
«Stai insinuando qualcosa?»
«No, Rowena. Sono certo che tu ti sia ricordata di chiudere tutte le imposte, quando sei stata male.»
«Certo.»
Una parola e la casa scricchiola, divertita quanto l’uomo davanti a me. Conrad passa in rassegna i vestiti gocciolanti, il viso probabilmente meno smorto di quando sono entrata e si sofferma sui capelli, le ciocche attorcigliate e umide di un rosa più acceso adesso.
«Mi sono sempre chiesto perché li tingi.» Occhi azzurri senza uno straccio di secondo fine li studiano dalle attaccature fino alle punte, una massa informe stesa lungo la spalla e sulla clavicola. «Ma immagino che la vera domanda sia: perché il rosa?»
Provo a trattenere la risposta, o a sviarne la parte più intima e personale, tuttavia sono vincolata a dirgli la verità. Sempre. Come lui la deve a me. Due vite intrecciate in un unico destino, obbligate dalla Madre a non avere segreti l’uno per l’altra.
«Perché è il primo colore che ho visto quando ho ripreso i sensi.»
«Vuoi dire quando ti ho riportata in vita.»
«Tecnicamente, se vogliamo essere precisi fino in fondo, mi hai impedito di morire» sottolineo, una precisazione che gli scalda lo sguardo. Per la Madre, quant’è irritante. «Ora se non hai altre inutili curiosità da soddisfare, direi che puoi andare a riferire al consiglio cittadino che sto facendo di tutto per risolvere la situazione.»
«Mi stai cacciando, Rowena?»
Sì. «Ti sto caldamente invitando ad andartene. L’ospitalità non può essere negata, non se è la casa a concederla.»
Conrad annuisce. Negli ultimi ventiquattro mesi deve aver imparato più cose sulle streghe di quante ne sapesse dagli anni di addestramento e come cacciatore. Grazie alle sue domande dirette.
(E alle mie risposte, certo…)
«E casa tua mi ha accolto. È per…»
«Probabile» lo interrompo, senza bisogno di sentire ciò che vuole sapere. «Nessun altro motivo lo giustificherebbe, considerato chi sei.»
«Un cacciatore.»
«Il migliore della tua stirpe.» Gli osservo le mani longilinee e mi riportano alla realtà di chi siamo, lui e io. «Quanto sangue di strega hai versato? Quante mie sorelle hai condannato?»
«Rowena…» Sollevo lo sguardo a incontrare le gemme fredde racchiuse nel suo, calore, divertimento e malizia bruciati nell’inferno delle mie domande. «Conosci la risposta. Tanto sangue. Troppe streghe.»
«Quante?» insisto e le pareti scricchiolano appena, la casa che si ribella al mio tentativo di renderglielo sgradito. «Quante, Conrad?»
«Vuoi un numero, Rowena?» Neanche mi accorgo di annuire, tuttavia lo realizzo nella durezza dei suoi tratti, nel cipiglio battagliero che gli si dipinge sulla fronte. Un guerriero moderno che ricorda chi gli è di fronte in questo momento. «Duecentonovantanove streghe, sei congreghe solo durante il mio primo anno di addestramento.»
Così tante sorelle. Per la Madre.
Premo il palmi sulla scrivania con forza per sostenermi nell’alzarmi in piedi. Raggiungo la porta prima di perdere il coraggio di proseguire e la apro, la maniglia stritolata nel palmo quando riporto gli occhi su di lui.
«Adesso dovresti andartene.»
Non protesta o fa domande. Si alza con la grazia che lo contraddistingue e che stona con la sua mole. I passi sono decisi nel farlo avvicinare, quei maledetti calzini rosa a sgretolare la facciata da pericoloso assassino che indossa per chiunque. Tranne per Astrid e me. Non da quando la sua esistenza si è mescolata alle nostre.
Conrad avanza e io mi obbligo a restare ferma mentre lo fa, la testa alta, le spalle dritte e gli occhi nei suoi anche se sono due spanne oltre l’altezza di un uomo comune.
Ma Conrad McKenna non è un uomo comune. Non potrebbe mai esserlo.
Lo percepisco sotto la pelle quando mi sfila davanti. E. Si. Ferma.
«Funziona?» chiede a bassa voce. «Ricordare ciò che ho fatto ti permette di odiarmi abbastanza da cancellare il senso di colpa perché non riesci a detestarmi a lungo?»
Lui e le sue maledette domande dirette. «Funziona… per un po’.»
«Già. Lo capisco, era lo stesso anche per me.» Solleva una mano e attorciglia il dito tra le ciocche umide dei miei capelli, il pollice a sfiorarmi il collo e a infastidirmi con il suo calore. Ma è l’intensità che gli attraversa gli occhi un secondo dopo a farmi irrigidire sul posto, la gola contratta al sentirlo sussurrare: «Chiedimelo. Chiedimelo, Rowena.»
Scuoto la testa.
«Ho ucciso quasi trecento streghe e tu non vuoi sapere perché mi sono fermato. Perché non ho ancora raggiunto la cifra tonda anche se ne ho avuto l’occasione.» Sento la domanda pungermi la lingua nonostante lui non mi abbia obbligato a porgergliela. Se solo lo avesse fatto, non dovrei trattenermi dall’indietreggiare per evitarlo quando si china su di me, le labbra a un soffio dal mio orecchio. «Be’, te lo dirò lo stesso.»
«No.»
«No?» mormora, il fiato caldo a scivolarmi lungo la gola. «Codarda. Ma io non lo sono, non più. E la ragione per cui non ho mai raggiunto quella cifra è perché avresti dovuto essere tu. Tu saresti stata la trecentesima strega morta per mano mia o con la mia partecipazione, e non potevo permetterlo, neppure due anni fa.»
«Eravamo estranei, avresti potuto lasciarmi morire.» Avrebbe dovuto, il confine tra dovere e volontà tanto sottile quando c’è di mezzo lui. «Non c’è onore più grande per una strega che dare la vita per una sorella, che sia di congrega o di sangue.»
«Un onore che io ti ho portato via.» Raddrizza la testa e affonda lo sguardo nel mio. «Lo rifarei.»
Perché?
Non oso aprire bocca, tuttavia lui sembra leggermi la domanda negli occhi, l’espressione addolcita quanto basta da incastrarmi il respiro tra cuore e gola.
«Perché vederti morire mi ha lacerato l’anima, Rowena. Non ne conosco le ragioni, ma assistere al tuo sacrificio ha messo in crisi il mio mondo e sì, se tornassimo mai indietro, ti salverei ancora.»
«Non sono nessuno per te. Non lo ero due anni fa e non lo sono adesso.»
«Ciononostante, l’ho fatto allora e lo rifarei adesso.» Allontana le mani, sparite nelle tasche del giubbotto prima che abbia il tempo di rimpiangere la mancanza del suo calore. «Questo cosa ti dice di me?»
«Non lo so.»
«Bugiarda» sussurra, il tono carico di rammarico anche con le labbra piegate in un sogghigno. «Chiedimelo.»
Di nuovo la stessa parola. Solo che stavolta cedo.
«Cosa?»
«Che ti puoi fidare.»
Sostiene il mio sguardo e, per la Madre, ho un oceano di verità a bagnarmi le labbra quando vi passo la lingua per inumidirle. Lui lo sa, lo percepisce e ne sostiene il peso insieme a me nella lotta di sguardi che portiamo avanti sulla porta del mio studio.
Nulla si muove. Persino la casa sembra in attesa di una nostra mossa, le assi attraversate da brividi lenti e costanti.
C’è un secondo di sospensione, poi…
Starnutisco.
E Conrad fa un piccolo passo indietro.
«Cambiati i vestiti, Rowena. O ti ammalerai di nuovo.» Ancora un passo ed è sulla soglia, il palmo poggiato contro la superficie di legno e una delle tante rune sulla porta. «E tu tienila al caldo, per favore.»
Oh, per la Madre.
Una sensazione di calma soddisfazione mi avvolge lo sterno, scalda le guance e fa scattare una protesta in fondo alla gola quando la casa gorgoglia il suo assenso. Ma non trova voce, perché in un attimo il cacciatore non è già più qui.
Resto ancorata alla maniglia, in ascolto dei suoi passi mentre se ne va finché la porta d’ingresso si richiude dietro di lui. Poi la moto romba nel mio cortile anteriore, l’ultima prova che Conrad McKenna sia mai stato qui.
Inspiro e mi rilasso, le dita della mano libera a massaggiarmi il ponte del naso.
Ogni volta. Lo fa ogni singola volta, lui e le sue domande e gli ordini mascherati da favori alla sottoscritta.
Mi muovo per tornare alla scrivania, tuttavia incespico nei miei stessi piedi quando porto lo sguardo sulle finestre, sulla vista del giardino sul retro.
E sulla pioggerella sempre più rada e sottile.
Il temporale sta finendo.
(Dannazione, ho starnutito io, lo so… Di nuovo.)
«Astrid» grido, la testa adesso voltata e gli occhi fissi dov’era Conrad un istante fa. «Chiudi tutte le imposte! Mi è tornato il raffreddore.»
E stavolta non incasinerò il meteo. Assolutamente no.
Fatemi sapere cosa ne pensate (io mi sono innamorata di loro, ma sono di parte)!
Federica
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