Ciao e buon Lunedì! Anzi, buon pranzo, vista l’ora!
Quest’oggi vi lascio il mio racconto per Il Club di Aven! Il tema era “La sapienza”, o meglio cos’è, per noi, la sapienza. Spero vi piaccia!
Credeva di sapere cosa fosse necessario fare. Sapeva esattamente ciò che tutti loro si aspettavano da lei, eppure Sara non riusciva a vedere al di là dell’immediato. Viveva giorno per giorno, convinta che così sarebbe riuscita a superare quel vuoto che sentiva al centro del proprio petto. Nulla le era capitato, non direttamente almeno, ma una notte si era svegliata di soprassalto. Qualcosa non andava, lo percepiva nei brividi lungo la nuca, nella fredda pelle d’oca che le ricopriva la pelle. Si era rigirata a lungo, sperando che il sonno tornasse, ma solo al mattino lo aveva capito. Si era guardata allo specchio. Aveva riconosciuto il suo viso, i lunghi capelli neri che le scendevano ribelli fino a metà schiena, le sue forme rotonde e piene. Tutto in lei era come lo ricordava. Eppure la ragazza in quello specchio non era davvero lei. Era ogni dettaglio insignificante a raccontarle la verità; un piccolo neo sull’anca, la linea regolare dei seni, una ruga all’angolo delle labbra sottili; la sfumatura più scura delle iridi castane. Aveva guardato dentro i suoi occhi e lo aveva finalmente sentito. Credeva fosse un crampo allo stomaco. Un senso di nausea incontrollabile. Il sintomo di un malessere passeggero. Ma dopo un anno passato a sentirlo crescere dentro di sé, Sara si era arresa all’evidenza. Qualcosa in lei si era spezzato per sempre quella notte. Se le avessero chiesto cosa, non sarebbe riuscita a dare una risposta. Non riusciva a descriverlo in modo comprensibile, non arrivava mai a esprimerne la giusta ampiezza, il giusto grado di incompletezza che le straziava il petto in un punto ben preciso. Era sempre lì, giusto dietro lo sterno, a metà strada tra i polmoni e il cuore. Chi le stava accanto non si capacitava del cambiamento, non capiva come una donna giovane e piena di vita come lei si fosse potuta spegnere in quel modo nell’arco di una sola notte. Ma a Sara era successo; nello specchio rivedeva se stessa e un’estranea, una donna con il suo aspetto che aveva però perduto la luce, la completezza. A volte, quando riusciva a prendere un respiro senza che il vuoto la schiacciasse, aveva l’impressione che qualcuno le avesse tagliato la corda che lega ognuno di noi alla vita, quel filo invisibile che lei credeva scorresse dentro gli esseri umani rendendoli parte di un unico, grande, intreccio. In quelle rare occasioni in cui non provava il desiderio di lasciarsi cadere a terra, per non rialzarsi più, Sara soffriva una mancanza inimmaginabile, senza avere una vera cognizione di cosa, o chi, le mancasse; poteva solo dire che, da quella notte, lei si sentiva incompleta. Nell’anno appena trascorso, molti avevano cercato di darle dei consigli; tutti si ritenevano saggi, esperti e sapienti di un dolore per loro muto e inspiegabile, una sofferenza che non avrebbero mai potuto alleviare davvero, soprattutto se l’avessero conosciuta nella forma e nell’impossibilità di trovarvi una causa che lei sperimentava in ogni singolo attimo della sua esistenza. Gli ultimi dodici mesi avevano portato Sara a pregare, a cercare cure laddove la scienza non sembrava capace di portare soluzioni, studiando miti e credenze antiche, parole tramandate da tutti i saggi da oriente a occidente. Eppure quel vuoto non veniva meno. Restava lì, dietro lo sterno, a metà strada tra i polmoni e il cuore. Un anno dopo quella notte, Sara era lontana da casa ormai da molti mesi. Camminava da ore alla ricerca di un santone, uno di quelli che poveri e superstiziosi adoravano e temevano, l’ultimo sulla Terra a cui chiedere una soluzione al male che le dimorava dentro. Il saggio non abitava in terre desolate, lontane o esotiche, ma in piccolo paese nella campagna brulla, uno di quelli in cui la chiesa è circondata dal camposanto, da lapidi vecchie e nuove coperte di muschio e nebbia. Fu davanti a una di quelle tombe che lo trovò. Era un uomo dimesso, un volto dipinto di rughe che gli anni e il dolore avevano reso evidenti. I suoi occhi chiari erano velati dalla stessa sfumatura che Sara scorgeva nel proprio sguardo. E lì capì che non le avrebbe potuto dare alcuna soluzione. Quel saggio, come ogni altro incontrato nel suo lungo viaggio, non avrebbe saputo dirle come alleviare ciò che le tormentava il petto. Ma Sara trovò lo stesso la sua risposta. Perché osservò la lapide di fronte ai suoi piedi, vi lesse le date e l’epitaffio. Apparteneva a un uomo morto un anno addietro, un giovane portato via da un tragico incidente e scomparso nella notte di una giornata triste come quella. E allora capì. Aveva avuto ragione fin dal principio; nel suo petto era stato reciso il filo di una vita, non la sua, ma quella di qualcuno che per lei avrebbe, forse un giorno, rappresentato la sua intera esistenza. Non poteva saperlo con certezza, tutta la sapienza del mondo non sarebbe servita a trovare una vera spiegazione, però lei sentì, altrettanto chiaramente quanto il peso nel petto, che quella era l’unica verità, l’unica risposta a tutte le sue domande. E alla fine pianse calde lacrime.
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