Questa sarà l’ultima cosa che dirà: Correte!
Mya rilesse più volte i tratti a carboncino incisi sul muro. Era passata una settimana e ancora nessuna notizia di Fred e suo figlio. Le avevano assicurato che una volta ricevuti i soldi non sarebbe stato difficile far entrare la sua famiglia in città, dare loro dei documenti e un posto sicuro dove stare per qualche giorno. Le avevano detto che si faceva regolarmente e che niente andava mai storto, se si sapeva trattare con le guardie. E Fred e suo figlio sapevano bene come farlo, loro erano dei veterani in quel settore. Era chiamato Trasporto beni ma a essere “trasportate” erano persone, spesso intere famiglie, e non merci, com’era scritto sulle carte da presentare ai cancelli di ingresso. La busta grigia in cui aveva nascosto le monete era ancora incastrata nella tasca interna della mantella; si era scordata di buttarla e quando non aveva più avuto notizie da Fred, si era convinta che quella fosse l’unica prova in grado di confermare che aveva seguito le istruzioni – nella città di Oniria le buste grigie servivano solo per uno scopo, tutti lo sapevano e tutti fingevano che non fosse vero. In quel momento però era come avere una scheggia infilata in profondità nella carne, sentiva il suo peso aumentare ogni secondo ed era certa stesse lanciando invisibili segnali per essere trovata. “Sono qui” urlava dalla sua tasca tutte le volte che una figura passava davanti alla finestra rotta del deposito. Se una guardia le avesse chiesto i documenti non avrebbe potuto nasconderla e allora nessuno le avrebbe evitato di finire in una prigione nascosta chissà dove sotto le fogne della capitale, con la sua famiglia costretta a anni di fame per quel tentativo di tradimento. Soffiò sulle mani per attenuare il freddo, mentre continuava a leggere la scritta a carboncino scarabocchiata sul muro di fronte a dove si era seduta per aspettare. Avevano scritto tirannide. Oniria stava regredendo ma, qualunque cosa volesse dire, a Mya non interessava. La Legge sulla Classificazione aveva raggiunto il mezzo secolo l’anno prima della sua nascita e nemmeno i suoi genitori sapevano com’era vivere prima che fosse il loro Signore a decidere quale dovesse essere il lavoro e la città di ogni singolo abitante. Il giorno dei suoi sedici anni si era recata dal delegato inviato dalla capitale come gli altri suoi coetanei e aveva ascoltato la sua voce monotona elencare la città in cui avrebbe vissuto e il suo lavoro. Per lei il verdetto era stato un colpo atroce: “Oniria, cameriera per la famiglia Deveroux”. Il delegato non aveva fatto una piega leggendo ma la sua amica Trish, due file davanti a lei, si era voltata per guardarla. Era sconvolta, proprio come lo furono i suoi genitori e i suoi fratelli e sorelle quando disse che se ne sarebbe andata il mattino seguente. Lei era la prima a lasciare casa e nessuno della sua famiglia si era mai trasferito più a sud di Poyn, un paesino a mezza giornata di cammino dal suo. Ma lei andava a Oniria, la città più grande mai costruita e lontana migliaia di chilometri, e per sua madre fu quasi come vederla morire. Le aveva detto che, a una tale distanza, era impossibile per loro anche solo pensare di potersi incontrare. Erano due anni che non li vedeva e le notizie che riceveva erano poche. L’orologio all’angolo della strada batté quattro colpi e le mura del deposito tremarono tutte e quattro le volte. Per quel giorno non aveva più tempo di aspettare ma mentre si alzava e puliva la polvere dai vestiti pensò che, se anche fosse rimasta lì un’altra ora, non sarebbe arrivato nessuno. Tolse un pezzo di gesso dalla tasca e segnò una piccola stanghetta sul pavimento, accanto alle altre fatte nei giorni precedenti. Con quella erano otto. Fred le doveva otto volte ciò che aveva pagato, una per ogni giorno di ritardo, però sapeva che non li avrebbe rivisti. Aveva sprecato due anni di stipendio più tre anticipi per riuscire a far entrare in città almeno due dei suoi fratelli e ora non aveva più nulla. Sarebbe dovuta sopravvivere fino alla prossima primavera senza un soldo, con un pasto al giorno e niente legna per scaldarsi. Uscendo in strada, Mya si coprì il volto con il cappuccio e nascose le mani nelle ampie tasche della cappa, più per non farsi vedere che per attenuare il freddo. Se qualche corriere che frequentava Villa Deveroux l’avesse incontrata mentre usciva da un deposito dismesso, avrebbe avuto la sua dose di problemi a spiegare perché si fosse trovata in quella zona. E poi doveva fare in fretta. Quella sera i signori Deveroux avrebbero tenuto una festa per la maggiore età della loro primogenita e Mya doveva aiutare la signorina a prepararsi. Un compito spiacevole, perché la sua presenza non era molto gradita a Lady Clara. A passi veloci si lasciò alle spalle il deposito, il grande orologio all’angolo della strada e la bottega del conciatore dove già brillavano le luci delle candele. Conosceva il tragitto a memoria: arrivata alla taverna gestita dalla donna grassa, girava a sinistra e poi sempre dritta fino alla fontana dove un cieco chiedeva l’elemosina, superata la quale si trovava a sud del parco confinante con Villa Deveroux. Da lì impiegava circa dieci minuti, con due svolte a sinistra intervallate da una a destra, per arrivare al cancello sul retro, quello della servitù. Il ticchettio prodotto dai tacchi dei suoi stivaletti sul lastricato della strada era accompagnato di tanto in tanto dal motivetto fischiettato da alcuni avventori della locanda e a mano a mano che vi si avvicinava, Mya si stringeva sempre più sotto la pesante lana della mantella. Le era già successo che qualche cliente la fermasse per chiederle dove stesse andando o per invitarla a restare e non voleva dover di nuovo affrontare la stessa situazione. Purtroppo la strada era stretta in quel punto e la sua andatura veloce attirò molta più attenzione di quanto avrebbe voluto. Un paio di uomini si misero a fischiare mentre passava, la chiamarono e quando lei proseguì dritta per la sua strada, abbandonarono la bettola e la seguirono. Mya cercava di non guardare indietro, di fingere che non avesse paura di loro e che i loro appellativi non fossero rivolti a lei, ma il cuore le martellava nel petto così forte che temeva stesse per esplodere. «Signorina» la chiamarono entrambi, le voci alticce e biascicanti per il troppo alcool. «Perché non torni indietro con noi?» Li sentì ridere ma non osò voltarsi indietro per vedere quanto si fossero avvicinati. Intravedeva già la sagoma della fontana, sentiva lo zampillio dell’acqua e quasi distingueva la voce del mendicante cieco dagli altri rumori; era certa che ci fossero altre persone ma finché non fosse arrivata alla piazza sarebbe stata sola. Doveva affrettarsi. L’ansia era così forte che non si accorse di una fessura tra due lastre. Finì per restarvi incastrata con il tacco dello stivaletto e se non avesse allungato la mano verso il muro sarebbe certamente caduta. Si chinò e afferrò lo stivaletto con entrambe le mani. Lo tirò e strattonò con forza nel tentativo di liberarlo, tuttavia più cercava di stringere i bordi di pelle, meno ci riusciva a causa del freddo che le intorpidiva le dita. Sentiva le voci farsi sempre più vicine, soddisfatte, addirittura euforiche; lei invece respirava a fatica, tesa perché presto quei due uomini le sarebbero stati accanto. «Ti sei fermata finalmente» il primo dei due che la raggiunse afferrò il cappuccio della mantella e le scoprì il volto. «Come siamo carini»ì «E giovani anche» l’altro si mise alla sua sinistra. Con quei due sistemati in quella posizione, Mya non sarebbe riuscita a scappare nemmeno dopo aver liberato il piede. Raddrizzò la schiena e ruotò il busto all’indietro per cercare di allontanarsi, ma il tacco non le permise di muoversi nemmeno di un centimetro. A ogni respiro sentiva l’odore dell’alcool proveniente dalle loro gole. «La mia signora avrà mandato qualcuno a cercarmi» si accorse troppo tardi che non avrebbe dovuto dire nulla, quando due paia di occhi la fissarono divertiti. «La tua signora non vorrebbe vederti camminare da sola» l’uomo che le aveva tolto il cappuccio allungò una mano verso il primo bottone della mantella. «Le strade sono pericolose» Inorridita, Mya lo allontanò con una spinta. Aveva una paura folle ma non avrebbe permesso loro di toccarla. Aveva ancora la mano protesa verso l’uomo che aveva spinto quando qualcuno le cinse le spalle con un braccio e la allontanò dai due ubriachi. «Buonasera, signori. Mia sorella vi ha recato problemi?» Alla parola “sorella”, i due uomini guardarono insoddisfatti il nuovo venuto. Anche Mya inclinò la testa leggermente all’indietro, meravigliata che qualcuno fosse giunto in suo aiuto. Da quella posizione non riusciva a distinguerne i tratti del volto ma si accorse che era giovane. Un giovane uomo le cingeva saldamente le spalle con un braccio e le teneva la schiena reclinata, vicina a sfiorare il suo petto, per allontanarla dai due inseguitori. «Vostra sorella?» domandarono quelli all’unisono. «Esattamente» la mano libera del ragazzo si spostò lungo il fianco, dove pendeva un pugnale. «Vi ringrazio per averla tenuta lontana dai guai» Un balbettio di scuse e rassicurazioni si levò dalle labbra dei due uomini, mentre si spingevano l’un l’altro per allontanarsi in fretta da Mya e dal ragazzo armato. «State bene?» il giovane la lasciò e dopo che si fu spostato davanti a lei come farle da scudo, seguì con lo sguardo i due fuggiaschi. «Ora sì» Mya contemplò il profilo del suo salvatore, indecisa se ringraziarlo subito oppure no, ma preferì concentrarsi su come liberare il tacco dello stivaletto. Fece per chinarsi ma il ragazzo la bloccò afferrandole un braccio «Lasciate che vi aiuti» «Sono in grado di continuare da sola» «Non dubito delle vostre capacità, ma della buona fede degli uomini che vi hanno seguita» la bocca del giovane si fermò vicino all’orecchio di Mya mentre parlava. «Non credo vi lasceranno andare se ci separiamo subito» Mya guardò lo sconosciuto, sospettosa. Dagli abiti sembrava un giovane di buona famiglia, non ricco ma rispettabile, e nonostante il suo aspetto poco curato, possedeva dei bei lineamenti. Le sue iridi, poi, erano braci non del tutto spente, nere come l’abisso più profondo e allo stesso tempo illuminate da un bagliore quasi impercettibile. Mya non riusciva a vederlo, lo sentiva solo nell’intensità con cui la guardava e non sapeva dire se sarebbe riuscita a negargli anche la più piccola richiesta. «Accompagnatemi fin dopo la fontana» fu il massimo che poté concedere a lui e a se stessa. «Conoscete il parco a sud di Villa Deveroux?» Il giovane annuì, lasciandola andare, poi si inginocchiò per aiutarla a togliere il tacco dalla fessura in cui si era incastrato. «Come vi chiamate?» le chiese rialzandosi, una volta che il piede fu in grado di muoversi. «Dovreste dirmi il vostro nome, prima» Mya si risistemò il cappuccio sulla testa, ricordandosi tutto a un tratto di dove si trovasse. «Zen» il giovane fece una piccola riverenza abbassando appena il capo. «Mya» sistemò la mantella e prima di incamminarsi controllò che i due ubriachi si fossero davvero allontanati. «Ora che so il vostro nome, vi chiedo di perdonarmi, Mya» «Perdonarvi per cosa?» non riuscì a essere veloce quanto il ragazzo nei movimenti e quando spostò il peso da una gamba all’altra per voltarsi, era già troppo tardi perché si accorgesse del pericolo e si allontanasse da lui. Con mezzo passo Zen le fu alle spalle e con una mano infilata sotto la mantella, le puntò contro lo spazio tra le scapole lo stesso pugnale che fino a poco prima pendeva lungo il suo fianco e che aveva fatto scappare i due uomini, mentre con l’altra le coprì la bocca per impedirle di urlare. «Ho bisogno del vostro aiuto, Mya. Vedete quegli uomini laggiù?» la spinse avanti di pochi passi, finché entrambi non videro un gruppo di cinque o sei individui dalle espressioni terrificanti, fermi accanto alla fontana e intenti a tormentare il vecchio cieco. «Ho bisogno che veniate con me e fingiate di essere mia sorella» Mya avrebbe preferito andarsene, non aiutarlo, ma come rifiutare quando aveva un pugnale puntato contro la schiena. Se fosse riuscita a uscire viva da quella situazione, ripromise a se stessa che non avrebbe mai più messo piede in quella parte della città; anzi, non sarebbe mai più uscita da Villa Deveroux per il resto della sua vita. Tutto pur di tornare sana e salva. «Non provate a scappare o chiedere aiuto» sentì distintamente la punta del pugnale premere contro i vestiti. «Avete capito?» Mya annuì per quel che le riuscì. «Bene» finalmente la mano di Zen si staccò dalla sua bocca. Il pugnale, però, restò dov’era. «Vi chiamate Katy e siamo arrivati a Oniria una settimana fa. Ripetetelo» «K-k-k…» non riuscì a pronunciare il nome. Non poteva, era pericoloso e aveva paura di essere scoperta e uccisa. «Katy! Non è difficile» la voce di Zen, che non si era scomposta nemmeno una volta, sembrò tradire un briciolo di impazienza. «Poi potrò tornare a casa?» le gambe le tremavano molto più di prima ma non aveva ancora perso la speranza. «Sì, ma solo se farete ciò che dico» la pressione del pugnale scomparve ma la mano di Zen restò ancora sotto la sua mantella, nel caso si fosse messa in testa l’idea di poter scappare. Mya non aveva mai dovuto dimostrare di avere coraggio. La vita non l’aveva messa di fronte nemmeno una volta a quella prospettiva e dal giorno dell’assegnazione, si era limitata a seguire ciò che i signori Deveroux le dicevano di fare. Cucinava, puliva, aiutava Lady Clara a vestirsi o faceva compagnia alla vecchia balia che aveva accudito la signorina e suo fratello per quasi dieci anni; non aveva altri compiti da svolgere e se non avesse cercato di far entrare la sua famiglia in città, sarebbe uscita raramente dalla Villa. In quel momento, però, doveva essere abbastanza coraggiosa per fare quello che il ragazzo le aveva chiesto, anche se la sua non era stata esattamente una richiesta. Si accorse che in fondo non era niente di diverso da ciò che faceva tutti i giorni. Si trattava di eseguire un ordine e non faceva differenza che esso venisse dai suoi padroni o da uno sconosciuto. Mya raddrizzò le spalle per riguadagnare un po’ di contegno e benché sentisse il cuore battere all’impazzata, quando si voltò per guardare Zen sentì di essere in grado di farlo. Doveva solo continuare a pensare che alla fine sarebbe tornato tutto esattamente com’era prima di quella sera. «Sono vostra sorella Katy. È una settimana che siamo in città» Mya tenne lo sguardo fisso sul volto di Zen mentre lui annuiva alla sua complicità e la spingeva verso la piazza. Uscendo dalla stradina buia i suoi occhi apparvero a Mya ancora più magnetici di quanto lo erano stati fino a pochi attimi prima; non si era chiesta perché quel ragazzo ben vestito avesse bisogno del suo aiuto o che affari avesse con quegli uomini, ma aveva capito che, più della paura o del desiderio di rimanere in vita, era stata quella misteriosa forza emanata dagli occhi di Zen a convincerla ad aiutarlo. Non sapeva assolutamente nulla di lui; poteva essere un criminale della stessa specie dei due ubriachi che l’avevano seguita dalla taverna o di quella degli uomini che doveva incontrare. Eppure non si sentiva in apprensione o intimorita nel camminargli accanto, la sua presenza in certo qual modo la rassicurava, perché aveva l’impressione che con Zen al suo fianco non le sarebbe accaduto nulla. Era sciocco da parte sua, ne era conscia, però non poteva evitare di avere fiducia in lui e nella luce emanata dai suoi occhi. «Non parlate finché non ve lo chiederanno» glielo sussurrò all’orecchio pochi istanti prima che un individuo tarchiato li vedesse e li indicasse al resto del gruppo. Immediatamente, il vecchio cieco smise di essere l’oggetto delle loro attenzioni e Mya lo invidiò moltissimo quando vide che strisciava il più lontano possibile. Zen appoggiò la mano contro la sua schiena e la incoraggiò a avanzare finché non arrivarono accanto alla fontana. Lì si fermarono e per un secondo Mya si chiese se quei malviventi stessero davvero aspettando loro due. Nessuno fece un passo verso lei e Zen, né dissero niente; rimasero immobili, gli sguardi fissi su di loro come se li stessero soppesando. Mya non si era aspettata una reazione simile. La sua idea era che quegli uomini li avrebbero attaccati non appena fossero stati abbastanza vicini, proprio come con il mendicante, quindi quell’immobilità la faceva sentire a disagio. Prese a fissare gli stivaletti pur di non dover vedere quei volti che la squadravano dalla testa ai piedi; se il tacco non si fosse incastrato, lei non si sarebbe ritrovata in quella situazione e sarebbe rientrata a Villa Deveroux senza incorrere in alcun tipo di problema. Non avrebbe mai incontrato lo sguardo magnetico di Zen e nulla di tutto quello sarebbe mai accaduto. «Quindi lei è vostra sorella?» un uomo si fece largo in mezzo al gruppo. Alto all’incirca quanto Zen, ma sicuramente più vecchio di lui, aveva un aspetto curato, gli abiti puliti e in ordine; i capelli erano biondi e lunghi, tanto che sarebbero arrivati fin sotto le spalle se non li avesse tenuti legati con una striscia di corda. A differenza degli altri, se lo avesse incrociato in altre circostanze, Mya non sarebbe mai stata in grado di capire che persona fosse; in un’altra occasione, avrebbe pensato a lui come a un uomo perbene. Le uniche cose che tradivano quella visione erano la spada e il fodero che spuntavano da dietro la sua schiena. «Non vi somiglia molto» si avvicinò finché non fu esattamente di fronte a Mya. «Abbiamo due padri diversi» la mano di Zen nascosta sotto la mantella si contrasse mentre l’altro uomo li controllava e l’elsa del pugnale finì contro la scapola di Mya. «Capisco… Come ti chiami?» le domandò dopo aver fatto un giro completo. «Katy» si sforzò di non tremare mentre rispondeva. Zen le aveva assicurato che sarebbe tornata a casa, perciò voleva fare la sua parte in modo impeccabile, così lui avrebbe mantenuto la parola. «E dimmi, Katy, da quanto siete in città?» «Da una settimana» l’uomo biondo non le tolse gli occhi di dosso un solo istante. Quello sguardo le fece venire i brividi. Sembrava una bestia pronta a divorarla. «Quindi, se dovessi chiederti se è tuo fratello lo stupido che ha cercato di mandare in rovina i miei affari otto giorni fa, tu cosa risponderesti?» «Che è impossibile» «Lo giureresti? Sulla tua vita, magari» l’uomo si allontanò e con movimento fulmineo estrasse la spada, puntandola dritta alla gola di Zen. «O forse, è meglio sulla sua?» Mya si sarebbe certamente messa a urlare se Zen non le avesse puntato nuovamente la punta del pugnale contro la schiena. Di sottecchi lo guardò, ma dalla sua espressione non trapelava nulla, come se il volto e la mano appartenessero a due persone diverse. «Mia sorella vi ha detto che è impossibile» la voce era calma, niente a che vedere con la tensione irradiata dal suo braccio. «Voglio sentirla giurare» il filo della lama tracciò un leggero segno rosso sotto il mento. «Sempre che possa farlo» l’uomo biondo girò la testa verso di lei. «Allora, Katy. Sei certa di voler giurare sulla sua vita che non è stato lui?» Mya non sapeva cosa fare, perché temeva che, qualunque fosse stata la sua risposta, né lei né Zen sarebbero stati risparmiati. Tuttavia, la sensazione di fiducia nei confronti del ragazzo che prima l’aveva aiutata e poi costretta a fare ciò che diceva non si era attenuata, nemmeno con un pugnale puntato contro la schiena. Era incomprensibile ma era convinta che Zen non le avrebbe fatto nulla di male. «Lo giuro» si sentiva braccata da quello sguardo ma non poteva fare altro. «Peccato, Katy, sempre che sia questo il tuo nome» gli occhi famelici indugiarono su Mya. Tremava all’idea di cosa avesse in serbo per lei quell’uomo ma alla fine spostò la sua attenzione sul collo e il volto di Zen. «Vuoi dire qualche parola prima di essere ucciso?» Zen alzò un angolo della bocca, come accennando un sorriso. «Solo una: correte!» Mya capì che era rivolta a lei nell’istante in cui la mano di Zen e il pugnale si staccarono dalla sua schiena per colpire il costato dell’uomo biondo. Non aspettò per vedere la reazione degli altri uomini mentre quello che doveva essere il loro capo veniva attaccato; raccolse tutte le sue forze, si voltò e iniziò a correre a più non posso verso una delle stradine laterali. Qualcuno urlò di non lasciarla scappare ma i passi dei suoi inseguitori si spensero quasi subito. Forse era stata la sua immaginazione, ma le era sembrato di vedere le ombre di più uomini muoversi in direzione opposta alla sua.
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